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La catastrofe, il crimine assoluto, e la costituzione politica delle passioni di Denis Duclos, antropologo, Direttore di ricerca al CNRS1



La catastrofe, il crimine assoluto, e la costituzione politica delle passioni
di Denis Duclos, antropologo, Direttore di ricerca al CNRS1


L’umanità può giudicarsi da sé ?
Nelle complicate discussioni degli etici sulla possibilità della responsabilità morale collettiva, si tratta di sapere se il collettivo, l’organizzazione, sono delle agenzie o delle persone morali; se esse portano a un livello più ampio il ventaglio delle scelte morali assunte dall’individuo. Ma mentre ci si perde nei meandri di arguzie senza fine, si scopre che è la specie umana in quanto tale a trovarsi sul banco degli accusati. Quale che sia la figura che attraversa più o meno temporaneamente il campo degli attori preposti (tale potenza industriale o militare, tale classe sfruttante o dirigente, etc.), si perviene progressivamente a una relazione nello stesso tempo diretta e universale tra la nocività o la capacità di nuocere, come occupante dominante del pianeta terra. La situazione attuale mettendo l’individuo davanti alle conseguenze degli atti collettivi, porta, mi sembra, a rimettere in discussione radicalmente la distinzione tra responsabilità individuale e collettiva, che si annulla in ciò che si chiamerà « responsabilità politica ». Quest’ultima, del resto, riguarda tanto le azioni individuali ( la criminosità delle quali risulta sostanzialmente dalle loro conseguenze collettive, e dal riflesso di queste sull’individuo2 ) quanto le azioni collettive ( che, in conclusione, sono sempre le conseguenze di azioni individuali).


Alcuni filosofi, che si riconoscono più o meno nei paraggi della « deep ecology », hanno aderito al postulato che iscrive l’umanità all’interno di un regno naturale e vivente. Facilmente dimostrato in modo indubitabile, questo principio produce allora il suo corollario morale: è bene che l’umanità agisca in modo da mantenere un equilibrio tra la propria esistenza e il resto del mondo vivente. Tuttavia, da questa posizione emerge immediatamente una contraddizione: come può l’umanità porsi il problema di una preservazione (della salvaguardia) del mondo vivente, dal momento che si presume che essa appartenga interamente a questo mondo? Bisogna, allora, o che il mondo vivente stesso sia dotato di una capacità di « suicidio » di cui l’umanità non sarebbe che l’agenzia, oppure che quest’ultima sia, de facto, in parte estranea a tale capacità nella sua possibilità di azione e di espansione, per potere interrogarsi sul proprio ruolo.

La contraddizione si risolve in apparenza mostrando che l’umanità è una specie il cui potenziale di nocività per la vita è più forte di quello di tutte le altre specie messe insieme. E’ essa, dunque, che oggi porta in sé la capacità di suicidio del mondo vivente. In quanto tale, la specie umana implica dunque il problema morale, poiché dalle sue scelte collettive deriva il bene o il male per essa e per la vita nel suo insieme3. L’umanità ha la responsabilità del pianeta, il suo ambiente naturale che essa può rovinare ( nel senso proprio di distruggere) ed è proprio questa responsabilità superiore alla responsabilità di tutte le altre specie che ne fa, in ultima analisi, il « coronamento della creazione », almeno a livello locale. L’umanità si divide allora tra un’istanza di responsabilità ( che si auto governa nel mondo e si auto limita nel suo potere di nuocere) e un’istanza ad agire ( che deve essere intrinseca al mondo senza destabilizzarlo).

Ma questa posizione inerente a una « morale del timore », se non addirittura della paura di sé, e che è quella elaborata da Hans Jonas nel suo lavoro sul « principio di responsabilità » conosce un limite logico e pratico nella determinazione di ciò che è l’istanza del giudizio e della responsabilità nell’umanità. Fino ad oggi, in effetti, l’etica inscrivibile nell’ambito (del diritto), della legge, ha sempre distinto interamente l’istanza della giustizia e del giudicabile. Non solo è immorale essere giudice e parte, ma sembra impossibile giudicare se stessi, salvo scindendosi in due personalità interiori. Per altro, l’istanza di giudizio è considerata superiore al giudicabile : il collettivo in nome del quale la legge è esercitata, è sovrano in rapporto a ciascuno dei suoi membri. Nelle forme di legittimità tradizionale, l’arbitro(umano o divino) è dotato di una potenza di giudizio di esecuzione superiore a quella dell’individuo giudicato, che non ha il diritto di considerarsi giudice dei suoi giudici (sebbene ciò succeda nei processi « ingiusti »). Ora, nel caso di un’umanità colpevole di distruggere il suo stesso mondo, e a meno di ritornare all’invocazione di un Dio giudice di questa dell’umanità, non è possibile prescindere da un’istanza superiore: questa sarà sempre l’emanazione dell’umanità, e ricadiamo in un paradosso o in un dissidio.

La soluzione jonasiana che consiste nell’appellarsi all’arbitraggio sovrano di un’élite responsabile, torna a costituire questa separazione dividendo l’umanità in una maggioranza colpevole e una minoranza di giudici-esperti, protetti come tali da ogni accusa. Così, oggi, i « lanciatori di allarme » sono circonfusi da un’aura di verità, di purezza e di altruismo profetico (per esempio sul cambiamento climatico) che li mette d’emblée al di sopra di ogni sospetto. Pensiamo che questa soluzione è criticabile perché elimina di colpo il problema che pretende di risolvere. In effetti, essa non affronta il problema dell’umanità nello stesso tempo colpevole e giudice e corre il rischio notevole di istituire la classe dei giudici in gruppo di potere che utilizza le conoscenze sui fattori nocivi e sulla paura che generano al servizio di un nuovo tipo di dominazione dell’uomo e della natura da parte dell’uomo. Tale dominazione può essere legittimata dalla pretesa di questi giudici di decidere in nome della specie umana. Per di più, l’utilizzazione della paura o dell’angoscia può avere l’effetto inverso di quello sperato (anche al prezzo di una imposizione « legittima ») : essa può condurre a comportamenti aberranti, suicidi, all’attuazione di politiche aggressive o febbrili, a « scommesse » ciniche sullo sfruttamento della catastrofe.


Proponiamo in questa sede di rifiutare una deriva troppo facile verso « la morale della paura », e di riconoscere la situazione etica interamente nuova che istituisce la coincidenza tra un’umanità collettivamente « colpevole » e un’umanità capace di giudicarsi e di trarne conseguenze politiche. Dobbiamo accettare, a rischio del paradosso, che la questione sia di confondere in ogni essere umano il colpevole e il giudice delle attività globalmente nocive. Occorre, per questo, riproporre e articolare due problemi: quello del passaggio tra la colpevolezza collettiva e la parte di ciascuno dei sette miliardi di individui che costituiscono il collettivo; quello del passaggio tra la capacità di giudizio e di autolimitazione che emerge collettivamente, e quella che si manifesta in ogni soggetto.

Per fare ciò, sottoponiamo al lettore il seguente ragionamento :
-Se la nocività globale è, per accumulo, l’effetto delle azioni dei sette miliardi di individui che compongono l’umanità, è impossibile ottenere una relazione etica continua e diretta tra il globale e l’individuale, perché una male globale può derivare da scelte individuali per il bene (come la ricerca di un lavoro a tempo pieno, quella di coprire il fabbisogno alimentare della propria famiglia, etc.)
-Se si rifiuta l’auto- designazione o elezione di arbitri tra il bene collettivo e il bene individuale (a causa del grave rischio di formare una classe di « guide dell’umanità »), non c’è che una sola soluzione alternativa: costituire politicamente il rapporto tra il collegio dei membri dell’umanità e il funzionamento pratico e l’attività pratica della specie umana sulla superficie del pianeta. Il fatto morale (per esempio il giudizio sul crimine) deve essere ripreso in ciò che esso è in effetti da sempre: un fatto politico, il solo capace di legare logicamente i beni e i mali causati dall’individuo e quelli che derivano dall’intera collettività.
-Si verifica che il degrado globale è dovuto alla sinergia fra tre componenti del funzionamento della specie: la sua crescita demografica, la sua capacità tecnica e infine il desiderio di superiorità o di vantaggio asimmetrico di ciascun membro sull’altro.
-La costituzione politica dell’umanità come responsabile del destino del suo mondo vivente deve tenere conto di questo « reale » non politico della sinergia delle tendenze della specie. Essa non può farlo evitando la formazione di una classe di giudici se non rappresentandosi (mettendosi in scena) essa stessa in una divisione che impedisce questa sinergia fatale.
-Anche se la prospettiva di una divisione del campo politico planetario secondo linee di tensione che oppongono delle tendenze ad altre può rivelarsi contemporaneamente utopico e inefficace, è possibile mostrare che essa racchiude la sola modalità tollerabile ed eticamente accettabile di organizzazione dell’ auto-limitazione. La sola che consente di trasformare ogni tendenza spontanea in una partecipazione al Bene, piuttosto che paralizzarla con il terrore morale, e in un colpo solo, di amplificarne i danni attraverso la resistenza del suo sintomo.
-La divisione del collegio politico dell’umanità secondo le poche grandi tendenze della specie per affermarne il campo di dibattimento in contraddittorio o di tensione (e non per lasciarli fondere in una tendenza fatale) non è in sé empirica: elle posa interamente sulla scelta etica di rispettare l’uguaglianza e la libertà di ciascuno nella collettività globale. Ma essa prende atto del fatto che la deliberazione e la decisione democratica mondiale devono essere organizzate in funzione del problema principale dell’umanità: il fatto che essa minaccia la vita stessa.

Beninteso, non possiamo qui sviluppare dettagliatamente l’insieme di questo programma ambizioso. Ci accontenteremo dunque di sottolineare qualche articolazione essenziale del ragionamento. Così, nella nostra prospettiva, il problema maggiore del collegio politico dell’umanità non è di saper piegare ogni individuo alla necessità collettiva, a costo di spaventarlo grazie a un sostituto moderno dell’inferno e della dannazione, ma piuttosto di comprendere 1) come si produce il male, e 2) quale principio di organizzazione opporgli.


La specie umana è « biocida » ?
Alcuni intellettuali pessimisti o fondamentalisti ci invitano a pensare « contro l’uomo », cioè ad sperare nella scomparsa della specie umana, al fine del mantenimento della vita sulla terra.

Supponiamo che un uomo possa augurarsi la scomparsa della sua stessa specie e , in alcuni casi, averne i mezzi. La realizzazione di questa possibilità sarebbe auto-dimostrativa; in effetti, una specie che gli individui sono capaci di detestare al punto di sopprimersi collettivamente, è pervenuta ad uno stadio in cui il suo avvenire è... effettivamente improbabile.
Ma come può un uomo arrivare ad augurarsi la scomparsa della propria specie ? Non può se non formulando la tesi che la specie in quanto tale sia completamente malvagia, buona da buttar via, e questo indipendentemente dal bene o dal male che possono commettere degli individui o dei gruppi in particolare, al suo interno.

Ma che cos’è una specie « completamente malvagia »? Nella misura in cui potrebbe essere posta da un gruppo di uomini potenti e pericolosi, prendiamo la questione sul serio: possiamo supporre che si tratti di una specie capace non solo di distruggere tutta la vita (oltre che la propria), ma votata, dedita interamente a questa distruzione. E’ in effetti intellettualmente e moralmente ammissibile pensare che una tale specie dovrebbe sparire prima di aver la possibilità di realizzare il proprio programma. La situazione dunque si precisa: se l’umanità è una specie siffatta, allora augurarsi la sua rapida scomparsa sarebbe dovere di ogni uomo! Volere, in tali condizioni, l’estinzione a breve termine dell’umanità, sarebbe volere la conservazione della vita, che può sembrare l’oggetto del dovere morale supremo (salvo presumere che la vita stessa sia condannabile).

Si può anche ammettere una variante minore di questa asserzione: diminuire la potenza di azione dell’umanità in quanto potenza del tutto nefasta può differire la distruzione della vita. Tuttavia, in tal caso, entriamo in un enunciato paradossale: come possiamo contemporaneamente essere completamente malvagi e capaci di emendare parzialmente questo carattere fatale inscritto in noi come nostra più universale natura? Non può trattarsi qui che di un’illusione. Aggiungeremmo la menzogna alla malignità, che amplificano e accelerano la nostra caduta e la morte assoluta che costituirebbe la nostra funzione.

Non c’è che una sola via di scampo a questo destino: bisogna accettare che non siamo interamente malvagi! Bisogna credere –o dimostrare- che disponiamo come specie di risorse che possono sottrarci al destino più fatale. Dobbiamo allora cercare le prove della nostra salvezza possibile collettiva, un po’ come i Protestanti dovevano scoprire i segni della loro elezione personale.

Ma non ci poniamo qui in un contesto religioso4, e ancora meno in quello di una buona novella o di una rivelazione sulla natura della specie. Ci dobbiamo accontentare di un dubbio metodico che concerne il nostro carattere « assolutamente malvagio », che resta tuttavia l’ipotesi di partenza, e un’ipotesi che non ha niente di puramente accademico o retorico, soprattutto riguardo l’esplosione antropica attuale sul pianeta.

Si presenta allora una difficoltà maggiore di un trattamento politico dell’impegno degli individui nell’orientamento morale della specie: finché il problema dell’autodistruzione della specie umana e della sua possibile distruzione della vita si trovava sollevato in modo concreto e riconosciuto da tutti, la morale restava essenzialmente un dominio concernente l’individuo e le sue decisioni.
Anche lo Stato colpevole non lo era che attraverso il giudizio dei suoi governanti o delle scelte dei suoi elettori. Ora, il problema attuale riguarda solo in maniera molto indiretta gli individui ( quando non si pone nei termini di un’opposizione radicale tra il bene individuale e quello della specie) e si pone solo marginalmente in termini di scelta politica. Il male ne deriva tanto più potente di quanto non risulti da milioni di scelte di scelte individuali in cui ognuno può ravvisare il bene per sé, per la sua famiglia o anche per il suo paese. In numerosi casi, anche la scelta è eliminata : se un disoccupato deve accettare un lavoro a più di due ore da casa e che preveda l’uso dell’automobile per non essere escluso dall’assistenza sociale, va a contribuire, suo malgrado e per il bene della sua famiglia, allo spreco del petrolio e all’effetto serra. I costruttori di automobili saranno spinti a fornirgli un veicolo e gli agricoltori, ormai produttori di carburante, a rendergli accessibile il prezzo del trasporto, anche a costo di far morire delle persone di fame per l’aumento dei prezzi agricoli.

Dunque, la questione di un’ “etica della preoccupazione” predicata da Hans Jonas5 è pesantemente distorta: questo perché giustamente si ha la preoccupazione dei propri ( particolarmente dei propri bambini, prima di preocuparsi dei bambini in generale) che non dell’“ambiente” in generale, né del futuro, in senso indeterminato. E se ci si rimette –come consiglia Jonas – all’etica delle élites, essa sarà ugualmente combattuta, e più ci si eleverà nella scala sociale e internazionale delle responsabilità, e più la preoccupazione non sarà quella della propria famiglia o del proprio gruppo etnico, ma quella di un’idealità, un’entità effettivamente derealizzata –l’umanità- con cui non ci si sentirà solidali se non in modo astratto o burocratico.
E’ la ragione per la quale, dobbiamo, io credo, cominciare con il distinguere radicalmente l’oggetto della morale classica, che verte sulle scelte concernenti il prossimo, ambito, tutto sommato, spesso affrontato molto bene dalla religione e dal diritto, e l’oggetto di una “morale antropica” che riguarda «il male assoluto» di cui l’umanità può rendersi colpevole in quanto specie, e che non ha nulla a che vedere con una somma di scelte individuali per il bene o il male, scelte che non potrebbero essere che paradossali. Il male assoluto non può essere affrontato rendendo «buono» ogni individuo della specie , ma facendo in modo che il bene per lui, corrisponda al bene collettivo, il che è una scommessa.
Come trovare la chiave del problema? Occorre dapprima rispondere alla questione: Come si forma il male assoluto? Come si entra, a dispetto di una grande varietà di scelte individuali, in una spirale che ci porta a diventare collettivamente una specie omicida e suicida?
Se chiamiamo « male assoluto », la vocazione dell’umanità a distruggere la vita sulla terra, la radice di questo male assoluto potrebbe essere descritta adeguatamente come ciò che, nell’uomo, verte irrimediabilmente in questa direzione. Ora, tale radice sembra costituita da tre aspetti strettamente correlati:
-da un lato la tendenza a desiderare sempre di più e il meglio per ciascuno per ciascuno e per tutti (ma anche contro gli altri), tendenza autorizzata dall’immersione della specie in una cultura che presenta un immaginario infinito grazie a un apparato simbolico linguistico.
-da un altro lato una potenza tecnologica che permette di realizzare una proporzione notevole di questi desideri, e di indurne di nuovi, speculando incessantemente.
-infine, uno sviluppo demografico che si avvantaggia di questa potenza e che serve come base a una demoltiplicazione dei desideri e della loro realizzazione.
Ora, queste tendenze, queste passioni di grande impatto collettivo, non sono in sé e necessariamente dei mali. E’ la sinergia unificante di questi tre elementi che sembra orientare la specie verso un destino nella migliore delle ipotesi pericoloso, nella peggiore fatale, sebbene ogni elemento singolarmente considerato possieda una propria inclinazione allo squilibrio: la popolazione umana, come una qualunque popolazione vivente, tende all’incremento naturale finché ha la possibilità di farlo. Anche la potenza tecnologica tende sempre ad accrescersi per la connessione irreversibile delle scoperte e delle applicazioni. Quanto alla spinta in avanti dello spirito umano, essa non si può arrestare, perché essa sola dà l’impressione di sfuggire all’ineluttabilità di una fissazione e di una reificazione nelle parole, queste forme astratte e morte.
Non bisogna cercare in questa sede di introdurre una visione consolatoria: sembra in effetti che ciascuno di questi fattori sia in fondo irreprimibile, anche se si possono ravvisare dei rallentamenti, dei compromessi. Per esempio, mi sembra insufficiente il volere rassicurare l’opinione pubblica mostrando che un tale sistema di educazione ha l’effetto di abbassare automaticamente e indefinitamente il numero di bambini per ogni donna. E’ di certo auspicabile che le donne sfuggano al destino servile di “prolifiche”, e che una società moderna permetta loro di desiderare i propri figli. Ma non illudiamoci su questo punto: un desiderio non represso non conduce a volere sistematicamente ridurre la soglia della fecondità al di sotto di 2 bambini per donna6. Se un tale desiderio si manifestasse statisticamente ( e noi non ne dubitiamo malgrado le acrobazie dei sociologi e dei demografi sul tema) si situerebbe piuttosto intorno al 2,5, a dispetto di tutte le variazioni « culturali », talvolta considerevoli, al di sopra o al di sotto7. Il che implica la prosecuzione –sebbene lenta- della crescita della popolazione umana.
La felicità di ognuno (o di ognuna) porta quindi all’infelicità di tutti? No, se si ammette che l’ipotesi della ricerca attiva di altri mondi da colonizzare e da popolare non è da considerare come della cattiva fantascienza, ma semplicemente come una necessità incoercibile della specie. D’altra parte, da questo punto di vista, ricordiamo ancora che se è nella spinta popolativa che la specie umana è « cattiva », essa condivide questo difetto con tutte le specie viventi! (anche se, quando i limiti della capsula di Petri sono infetti e le risorse totalmente esaurite, esistono numerose specie di batteri che sanno mettersi in stato d’attesa, bloccando il proprio sviluppo sotto la forma di sporulazione.)
Comunque sia, anche se la tendenza emergente è oggi quella della convergenza – più o meno rapido – dell’insieme dei paesi della norma demografica « occidentale »(longevità e nucleo famigliare piccolo), non si può contare solo su una diminuzione della pressione demografica per realizzare un rapido « alleggerimento» della specie umana sul destino del mondo vivente.

Si può, in compenso giocare sugli altri due fattori : tecnologia e immaginario desiderante ? Ebbene, anche qui, non illudiamoci : l’impossibilità è pure netta, benché meno flagrante che per la demografia.
Per quanto riguarda la tecnologia, essa è divenuta, da una parte, la condizione stessa della fuga futura della specie verso il cosmo, e da un’altra parte è evidente l’irreversibilità dell’acquisizione dei saperi e del know-how: a meno della catastrofe totale, non si vede ciò che potrebbe impedire di sapere quel che già si sa già e di migliorare costantemente questo sapere8.
Certamente, si può, some un antico imperatore della Cina, vietare gli orologi, ma è bastato qualche secolo perché i Cinesi divenissero produttori di quasi tutti gli orologi ( e anche dei –falsi – orologi svizzeri!), e il nuovo imperatore della Cina non ha alcun interesse a bloccare le innovazioni che provengono dagli imprenditori internazionali interessati ad utilizzare la manodopera cinese. Al contrario, si possono concepire riorientamenti della potenza tecnologica in funzione dei grandi bisogni: la penuria di energia può essere l’occasione di una fioritura di tecniche « ecologiche ». I costruttori di automobili sanno che se non produrranno automobili elettriche, presto non avranno più mercato. Il progresso tecnologico non è dunque in sé il segno fatale della nostra malvagità di specie: è solamente assai imprudente lasciarlo dispiegare nel senso di una potenza demoltiplicata.
Infine, quanto alla tendenza alla potenza infinita che produce il binomio immaginario-simbolico nelle culture umane, essa è evidentemente « indistruttibile ». Ma in compenso, a differenza della direzione unica che caratterizza gli altri due fattori (sempre più popolazione, sempre più sapere tecnico), essa è anche di un’estrema flessibilità. D’altro canto, quando tende a diventare ipnosi o narcosi associandosi a dei termini reali che sono propriamente allucinogeni, come il gioco d’azzardo, il consumo, o ancora lo schermo del computer o della televisione, ( e secondariamente il fumo, l’alcol o gli stupefacenti), questa tendenza incontra quindi un limite che la spinge a stabilirsi altrove, sempre altrove. Il piacere finisce con il fare orrore al desiderio, che si ristabilisce fuggendolo.
Bisogna certamente anche tenere conto dell’odio – sempre presente intrinsecamente presente nel desiderio -, perché esso raccoglie gli esseri umani in armate contro gli altri, per ucciderli o prendere ciò che posseggono. Ma, per quanto cronico l’odio possa essere, bisogna ammettere qui – un po’ cinicamente – che esso si rivolge sempre allo stesso umano e non al mondo. L’odio più puro produce per esempio « bomba pulita » che risparmia la natura. Questa non è dannosa per la vita in generale che quando i « danni collaterali » sono troppo rilevanti, o nel caso in cui, ritorcendosi contro il suo autore, punta a suicidio collettivo che trascina la natura verso la scomparsa. Questa prospettiva non è da ignorare totalmente, ma bisogna tuttavia prendere in considerazione due aspetti dell’odio: da una parte esso si sublima in manifestazioni simboliche, (arte o sport), e da un’altra esso può nutrire un’indignazione contro le sue proprie inclinazioni verso la distruzione. In realtà, è sempre possibile far circolare l’odio, di distinguerne gli oggetti e di moderarne il flusso, come è possibile anche per gli altri aspetti del desiderio.

Il destino dell’odio è sia l’omicidio e il suicidio, sia la sua sublimazione sotto forma interattiva. E’ la ragione per cui scegliamo di eludere sistematicamente l’opzione omicidio-suicidio – che si auto-estingue in ogni modo - per considerare il mutuo riconoscimento, anche attraverso ) o al di sopra) delle conflittualità più sanguinose e più durature9. Abbiamo scelto in uno stesso tempo di considerare che il ruolo dell’Umano nella nocività radicale è secondario e strumentale: non fa che aggiungere un poco di energia a un orientamento che non gli deve, in fondo, il suo carattere fatale.

Per dirla tutta, ciascuna delle grandi forze attive – e positive - della cultura umana spinge eventualmente alla distruzione della vita, ma è il loro intrecciarsi che dà alla risultante delle loro spinte un’inerzia impressionante, e in tutta evidenza piena di pericoli di portata realmente globale.
Azzardiamo un paragone tra il fenomeno umano e l’evoluzione : il primo, in breve, mostra un carattere tanto più esplosivo. La seconda è una lotta di miriadi di possibili che si contrappongono prima di trovare una comune linea di fuga, di nuove orientazioni, di selezioni che non sono solamente l’affermazione dei più forti, ma piuttosto equilibrio progressivo delle troppo grandi spinte di forze con quelle che condividono lo stesso ecosistema.

In questa prospettiva, il carattere realmente fatale dell’esistenza umana sulla faccia della terra sembra, così, legato alla rigidità delle articolazioni delle sue tendenze, e all’effetto di retroazione positiva, amplificatrice, che ne consegue, tra i tre « stadi » della realtà antropologica attuale: una popolazione che chiede di crescere, una moltitudine di individui e di gruppi che esigono la soddisfazione non appagati, e una tecnologia che sembra poterli soddisfare rapidamente e senza limiti.

La costituzione del « dissensus », soluzione alla sinergia fatale ?
La soluzione salvatrice – che libera l’umanità dal sospetto di essere interamente malvagia- può essere dunque definita come ciò che permetterebbe di sciogliere questo insieme pseudo-organico10,al fine di fermare la « convenzione » delle tendenze che lo compongono. E dal momento che la crescita demografica continuerà, sebbene rallentata, si tratta essenzialmente di permettere ai desideri di moderarsi spostandosi su sistemi di oggetti differenti, o verso tecnologie che consentano loro di diversificarsi. Certamente, questa pluralità minimale non saprebbe competere con la moltitudine forze viventi opposte che finisce, nell’evoluzione, con il produrre degli organismi vitali, cioè dei mondi già in sé equilibrati, controbilanciati nelle loro diverse pulsioni, e dunque in lotta difficile e quanto più possibile « biogena »11 contro le proprie tendenze all’apoptosi12. Ma è almeno un inizio, come una prima divisione cellulare, un primo abbozzo di diversificazione, dopo la proliferazione dello stesso che rappresenta piuttosto il modello dello Stato-Nazione13.
Ma come pensare che la disarticolazione delle tre grandi forze convergenti porti l’umanità alla sua rovina? E’ solo immaginabile? E se così fosse, come trasporre il fatto in un « programma » politico, comprensibile e ammissibile? Se la soluzione fosse semplice, sarebbe stata già scoperta e applicata. Ci occorre almeno chiarire i termini del problema.
Ma fin d’ora, si può osservare che alla fine non possiamo agire « politicamente » ( ovvero consciamente in rapporto a delle grandi masse) che su una delle forze, le altre eventualmente modificano dopo energia e direzione. Proponiamo, per avviare un autentico processo di pluralizzazione, di intervenire...su ciò che potrebbe sembrar essere la sovrastruttura: la convergenza dei desideri che, di fatto, trascina retroattivamente tutto il resto. Crediamo sia possibile, perché il desiderio umano – se è indistruttibile – ha la proprietà di potere volgersi verso oggetti differenti, perfino opposti.
La teoria della pluralità basata qui su quella del dialogo, corrisponde a questo proposito: da una parte è questione di riconoscere che i desideri umani non sono automaticamente assorbiti dalla spirale del gioco capitalista e consumistico (sempre più jouissance attesa dalla posta puntata nel funzionamento), ma che essi possono divergere in modi di vivere differenti, ciascuno appassionatamente sostenuto.
In seguito, si stabilirà che questa differenza irriducibile può essere organizzata nel tempo e nello spazio in maniera da scongiurare una nuova caduta collettiva in un’unica direzione, che amplifica automaticamente il carattere nefasto degli intrighi umani sul mondo comune. Una volta stabilito questo mutuo riconoscimento – attraverso la costruzione di un campo interattivo mondiale -, allora anche le tecnologie al loro servizio potranno diversificarsi.
Da quel momento divenendo plurale la risposta ai bisogni, la popolazione non proporrebbe più un unico modello di utilizzo del pianeta (per esempio fondato interamente sull’esaurimento del petrolio o del gas), ma si suddividerebbe in modi di vita che implicano degli usi opposti, questa volta attribuendo ad ciascuno di essi il medesimo valore. A loro volta, questi, facendosi valere reciprocamente in un dialogo, possono rallentare o bloccare ogni abuso massiccio, e soprattutto « sublimare » la tendenza a precipitare verso la jouissance dominata da un unico sistema di oggetti14. I modi di vita differenti possono anche avere degli effetti rilevanti sui livelli di crescita demografica. Il fatto stesso di legare il suo destino collettivo a uno stile ponderato, considerato in un’ottica interna al mondo umano e naturale, cambia totalmente il senso della decisione di avere dei figli: non ci muove più in una logica di sopravvivenza cieca o di competizione attraverso la « guerra delle culle », ma nel rispetto di sé nell’immagine che si offre agli altri, il tutto proiettato nell’avvenire.
Resta evidentemente da sapere come una simile pluralizzazione dei modi di produzione e di vita possa nascere, svilupparsi fino a spezzare e frammentare il « tessuto canceroso » omogeneo in cui è avvolta la nostra attuale società-mondo. L’oggetto del presente lavoro è di tentare di mostrare che, anche se qualcosa di questo ordine sembra oggi perfettamente invisibile, virtualmente non è meno plausibile, perché esiste di fatto dappertutto e indefinitamente, sotto varie forme da cui bisognerebbe trarre degli insegnamenti, analizzandoli nel loro potenziale « antropologico ».

Non si tratta di immaginare l’impossibile – la coincidenza di un nuovo sistema globale considerato « buono » con gli interessi di tutti e di ciascuno -, ma piuttosto di accettare, per qualche ente di deliberazione politica, il fatto che ogni gruppo di interessi tende a organizzare il mondo secondo il proprio « bene », che non è lo stesso di quello che concepirebbe un gruppo differente: per esempio, il gruppo dei « disoccupati cronici » si organizzerebbe, se lo potesse, per attirare i lavori vicino agli alloggi, determinando un costo moderato di questi, mentre il gruppo degli imprenditori preferirebbe far abbassare il costo della manodopera, in particolare facendola venire da paesi lontani in cui non costa quasi niente.
Se si ritiene che un solo sistema, come quello del mercato, possa risolvere la contraddizione tra questi due gruppi, si accetta di costruire un mondo che scivola obbligatoriamente verso il parassitismo in materia di energia, di concentrazione urbana, etc. Vale a dire che si va a creare un compromesso « inglobante »15 che si effettuerà a danno di un terzo gruppo – per esempio quello dei bambini che dovranno vivere in un mondo in cui le risorse fossili saranno esaurite e avranno riversato tutto il loro carbonio nell’atmosfera.
Una volta effettuata la deriva come compromesso, si avrà anche « cancerizzato » l’organizzazione umana che non potrà fare a meno del petrolio, dei trasporti, della fatica, dell’inquinamento, etc. Utilizziamo qui la metafora del cancro nel senso di una forma di vita che partecipa di una forma più vasta, che mobilita le sue risorse e le sue articolazioni, inscrivendosi in essa fino a divenirne inseparabile, fino al punto in cui lasciandola vivere essa finisce per uccidere il suo portatore, ma anche fino al punto in cui cercando di distruggere solamente l’insieme delle metastasi, si va anche malgrado tutto a distruggere l’organismo ospite.
Ma il cancro è una metafora limitata: essa non offre la possibilità di lasciar vivere il tumore che se fosse un organismo autonomo, cosa che invece può verificarsi nel caso di un regime sociale in rapporto a quello in cui si trova necessariamente immerso oggi. Si può, certo, in caso di crisi grave del funzionamento, eliminare i lavori e lasciare la gente morire di fame, o mobilitarla per utilizzare la loro collera contro dei « nemici » ( cosa che conduce pure a la morte in massa). Ma si potrebbe anche sulla base di un’istanza di pubblico arbitraggio, riconoscere che, essendo i due ragionamenti( quello della gente e quello delle imprese) inconciliabili senza danni maggiori o differiti, si dovrà cercare piuttosto di costruire nello stesso mondo fisicamente dato due domini distinti e protetti l’uno dall’altro: per esempio, l’uno fondato sulla vicinanza e l’altro sulla lontananza.

Per esempio, il dominio fondato sulla vicinanza costruirebbe il suo mercato del lavoro. E’ possibile che ciò richieda molti sforzi non pagati, ma la nozione stessa di povertà e di ricchezza cambia quando la collettività di riferimento diviene differente: i valori per gli « eroi » di un mondo locale non sono più gli stessi di quelli dei consumatori delle grandi reti mondiali. Si è fieri di altre cose, si è capaci di sacrifici che assumono un significato diverso, e infine, di costruire dei circuiti relativamente autonomi, liberati dal feticismo della merce. Io credo che è possibile ( benché molto difficile in un contesto di seduzione per il denaro) perché degli ordini religiosi o delle sette , dei movimenti sociali, dei movimenti millenaristi, sono, nel passato e ancora oggi, riusciti a sfuggire, in virtù della fede in se stesse come società distinte, all’attrazione fatale della nebulosa di scambi universali considerata come la sola e ultima razionalità.

Non si tratta certamente qui di predicare un ideale settario, ma di ammettere che è sufficiente che una collettività locale protegga il proprio mercato e produca alcuni dei propri beni di consumo perché appaia la possibilità – anche parziale – di esistere al di fuori di un’assoluta dipendenza dalla legge dello scambio globale. E in questo caso l’etica antropica che si oppone al male assoluto ritorna a proporre di riconoscere legittimi dei modi di organizzazione e di solidarietà materiale e morale che divergono in rapporto a un sistema unico, non potendo questa differenza essere presa in considerazione dai «  mercati ».

Ecco dunque, abbozzato a grandi tratti, l’argomento sostenuto qui. Esso implica di considerare la possibilità di differenza interna alla specie come un elemento cruciale per la propria sopravvivenza e per la sopravvivenza...della vita. Cosa che può sembrare paradossale nel tempo dei grandi appelli al consenso e all’unità per « salvare il pianeta », i quali rischiano di portarci, se riuscissero, in una geo-gestione autoritaria. sanitaria e militare-poliziesca delle popolazioni, di cui non ci sono garanzie che essa alla fine non sarà ugualmente dannosa per la vita, essendo del tutto insopportabile per gli esseri umani.
Bisogna ancora una volta sostenere che l’auto-limitazione collettiva per l’affermazione della pluralità delle passioni non è un obiettivo tecnico, che, a suo modo, rimuoverebbe il problema del male. Essa è piuttosto una maturazione della politica come morale: al di là di ciò che Rawls ci propone come l’ideale di una società ben ordinata, sembrerebbe in effetti che una « società-mondo » non può costituirsi che sulla constatazione della pluralità fondamentale delle « versioni dell’uomo ». In questo senso, del resto questa « società delle versioni dell’uomo » non è una società delle nazioni o dei popoli. Costituendosi, essa si trasforma subito in un’altra cosa che non è più una società, anche tollerante verso la propria diversità interna, ma un campo geo-politico che si fonda direttamente sul « dissensus ». La morale consiste qui nel fatto che noi dobbiamo, a questo livello, rinunciare al desiderio che tutti gli esseri umani vivano grosso modo alla stessa maniera, perlomeno in una cooperazione organizzativa minimale. Perché anche questa cooperazione minimale può avere degli effetti di negazione dell’alterità umana, e dunque dell’alterità naturale che la perpetua.

Questa scelta del « dissensus » è una morale concreta, perché comincia immediatamente quando incontro attorno a me delle persone che rappresentano attualmente o potenzialmente dei modi di vita differenti. Qui non si tratta di opporre modo di vita moderna e modo di vita tradizionale, ma piuttosto di partire dalle scelte che farebbero oggi gli uomini se l’economia gliene lasciasse modo.
Vale a dire che non occorre partire dalla dittatura economica che designa il nostro mondo comune come quello della penuria ( metafora della capsula di Petri), ma da un dibattito politico sulla libertà concreta dei membri del collegio politico costituito dall’umanità. Questa decisione è probabilmente la scelta etica principale con la quale devono misurarsi gli esseri umani che vivono oggi.
Questa rinuncia all’omogeneità della specie umana nei suoi rappresentanti viventi che formano il solocollegio politico mondiale è innanzitutto una necessità per permettere agli esseri umani di « vivere la loro natura », che è essenzialmente plurale ( che non vuol dire infinitamente mutevole). Che questo riconoscimento dell’irriducibilità delle differenze dei grandi modelli di vita corrisponda « magicamente » alla migliore tecnica a lungo termine per frenare l’eccesso anti-ecologico associato a un modello di consumo unico, non è, in realtà, casuale: ciò accade perché all’interno del mondo umano, io sono portato a riconoscere la sovranità (parziale) dell’altro, come scelta di un modo di esistenza collettiva, che sono ugualmente tenuto a rispettare nelle forme di natura che sono ad esso legate.

Postuliamo dunque che il Bene, vale a dire il riconoscimento del nostro mondo comune, così prezioso, non può che essere il risultato dell’istituzione di un campo culturale mondiale, nel quale i partecipanti si fanno essi stessi supporti dell’esistenza di un aspetto antagonistico di questo mondo, cosa che significa che essi entrano in dialogo. In questo nuovo dominio morale, il Bene non deriva più dalla buona scelta di cui ci si crede latori, Dio e la Scienza aiutando, ma nella modestia che consiste nell’ammettere che il Bene è la limitazione reciproca dei mali causati da ciascuno dei nostri modi di organizzarci.
Sicuramente, si tratta ancora di un’utopia, e di un’utopia molto astratta (in apparenza) ma la velocità con cui sale il prezzo del petrolio può spingerci a pensare che, in certi momenti della storia, le realtà base possono cambiare tanto velocemente che le utopie potrebbero essere chiamate alla sbarra molto più rapidamente di quanto non si possa immaginare!


Denis Duclos




Dimanche 29 Janvier 2012 - 08:50
Dimanche 29 Janvier 2012 - 08:54
Denis Duclos
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